Traduzione di Sandra Dottarelli per Gruppo Archeologico Velzna “Alessandro Fioravanti”
RIPRODUZIONE VIETATA©tutti i diritti servati
Tratto da: Volsinies étrusque et romaine. Nouvelles découvertes archéologiques et épigraphiques di Raymond Bloch - Pubblicato in MEFRA- 1950
VOLSINII ETRUSCA E ROMANA
NUOVE
SCOPERTE ARCHEOLOGICHE ED EPIGRAFICHE
Di
Raymond
Bloch
Membro Anziano dell’École
_____________
Gli scavi nella regione di
Bolsena, dei quali Albert Grenier, direttore della Scuola Francese di Roma,
volle affidarmi la direzione, si svolsero a maggio, giugno e ottobre 1946,
maggio e giugno 1947 e maggio 1948. Un recente articolo ha già esposto i principali
risultati delle campagne del 1946
.Solo
alcune brevi comunicazioni o rendiconti hanno fornito finora un rapido quadro
degli insegnamenti apportati dalle campagne degli anni seguenti
.
Vorrei dare qui una descrizione la più fedele e completa possibile dei
risultati degli scavi del 1947 e 1948, dedicandomi poi ai monumenti, ai documenti
illustrati e alle iscrizioni che furono allora scoperti e meritano di essere
studiati (pianta, fig. 1)
.
****
Tra le colline della città alta,
Poggio Casetta attirò la nostra attenzione per la sua posizione centrale.
All’inizio del secolo, Gabrici aveva scoperto, ai piedi della collina, un
edificio sacro che, accanto a resti propriamente romani, presentava ancora
parti di possenti mura isodome di epoca etrusca
.
Gabrici aveva creduto di riconoscere in questo tempio il santuario della
Dea Nortia e la sua identificazione
sembra, in effetti, probabile
.
Ma, da sostenitore della localizzazione della Volsinii etrusca a Orvieto,
vedeva lì una costruzione romana, successiva forse a una costruzione più
antica, ma dove la
Dea Nortia non
poteva essere stata venerata che dai Romani. I lavori della Scuola Francese
portano a ritenere che questo edificio fosse susseguito sul posto al santuario
etrusco di Nortia, nel cui muro, apprendiamo da Tito Livio, si piantava ogni
anno un chiodo per contare il numero degli anni
.
Una delle scoperte più curiose fatte dal Gabrici era stata quella di un pozzo immenso,
trovato all’angolo sud del santuario e il cui diametro era di 2 metri e la
profondità di m. 14,50. La parte superiore di questo pozzo, nella quale si
gettavano gli ex-voto, è stata ricostituita con fedeltà nel giardino del museo
archeologico di Firenze. La costruzione consiste in grossi blocchi di tufo
sovrapposti senza leganti cementizi e risale certamente all’epoca etrusca.
Lo stesso Poggio Casetta sembrava
poco propizio per un’esplorazione archeologica. La collina è troppo stretta e
scoscesa, la sua sommità, interamente ricoperta di alberi, ha una superficie
piana molto limitata. La roccia lì è molto vicina, lo strato di terra
superficiale molto sottile. Ciononostante, la sua esplorazione riservò una
felice sorpresa. Due trincee, tracciate perpendicolarmente l’una all’altra,
permisero, sin dal primo giorno di scavo in questo punto, di incontrare dei
muri di fondazione incastrati nella roccia. Apparve subito urgente liberare la
sommità dagli alberi più fastidiosi per lo scavo, e fu allora possibile
ritrovare i resti di un santuario etrusco che occupava la cima del Poggio. Da
questo punto la vista permette di abbracciare un panorama magnifico da
Montefiascone a sud fino all’imponente profilo del Monte Amiata a nord e comprendente
la vasta superficie argentea del lago volsiniese, in mezzo al quale sembrano
fluttuare le due piccole isole dalle pareti scoscese e rocciose, l’Isola
Martana e l’Isola Bisentina. Subito ai piedi della collina cominciava la zona
residenziale della città etrusca. La sommità del Poggio era quindi una
posizione ideale per un tempio, da dove gli Dei potevano sorvegliare
l’immensità del paesaggio e la città che si trovava sotto la loro protezione.
Esaminiamo innanzi tutto la
pianta del santuario (fig. 12 e 13) e vediamo in seguito in quale misura esso è
conforme a ciò che già conosciamo del tempio etrusco-italico, grazie alle
rovine riesumate in territorio etrusco e grazie alla formula del tempio toscano
che Vitruvio ci ha tramandato nel suo trattato di architettura
.
Il tempio è costruito
direttamente sulla roccia, non c’è traccia di podio. Il livello di base del
tempio era esso stesso di roccia che abbiamo rapidamente raggiunto, essendo
ricoperto solo da uno strato di terra di meno di un metro di spessore. I muri
esterni del tempio erano incastrati nella roccia, all’interno della quale erano
stati scavati dei lunghi corridoi destinati a ricevere le loro fondamenta.
Questi muri sono fatti di blocchi di tufo e frammenti di rocce alternati, senza
leganti cementizi. Il loro spessore è mediamente di m. 0,60. Il muro nord,
quello meglio conservato, è stato liberato per un’altezza di m. 1,50. Fatto
molto curioso, il tempio è stato costruito appena prima della sommità della
collina, in un punto dove già si delinea la pendenza. In queste condizioni, i
muri di fondazione est e ovest poggiano su un suolo inclinato e un dislivello
di 2 metri separa le loro estremità nord e le loro estremità sud. Il muro sud è
interrotto al centro; là era l’entrata del tempio alla quale portava una rampa
a tornanti multipli.
Il rilevamento delle proporzioni
dell’edificio rivela una particolarità, percepibile, del resto, a occhio nudo.
Il tempio è più largo che lungo: la sua larghezza totale è, in effetti, di m.
17,20, la lunghezza raggiunge m. 13,40, misurando a partire dall’estremità dei
muri. L’orientamento del tempio è, come di regola in Etruria, sensibilmente
nord-sud. Sul blocco di tufo che forma l’angolo sud-ovest del tempio sono
incise due lettere etrusche, W ed E (pi. IV, fig. 14), su un blocco del muro
nord appare un segno in forma di V.
Rileggendo il diploma di studi
superiori che aveva redatto nel 1936 il mio collega e amico Paul-Marie Duval, e
che s’intitola “Ricerche di storia e d’archeologia sullo stato delle questioni concernenti
Poseidonia (Paestum)”, constato con sorpresa che, sulla faccia sud dello
stereobate del tempio ennastilo di Paestum, si legge un’iscrizione del tutto
simile a quella che appare all’angolo sud-ovest del tempio volsiniese. Si
tratta ancora di un W, vale a dire di un sigma di forma arcaica e di una E (pi.
IV, fig. 15). Il fatto è estremamente curioso e merita di essere visto da
vicino.
Non soltanto le iscrizioni
rilevate sul tempio volsiniese e sull’ennastilo di Paestum sono le stesse, ma
entrambe appaiono all’angolo sud-ovest dei due santuari. A Volsini, come ho
detto, figura sul blocco stesso che forma l’angolo sud-ovest del tempio, quella
di Paestum appare, come apprendo da P.M. Duval, sulla faccia sud
dell’ennastilo, a brevissima distanza dall’angolo sud-ovest. L’estrema
somiglianza delle due iscrizioni (l’unica differenza tra loro è che
sull’iscrizione volsiniese il sigma ha una gamba in più che sull’iscrizione di
Paestum), l’identità della loro posizione nei due casi, dimostrano, a mio
avviso, che non è una semplice coincidenza. Forse in entrambi i casi si tratta
di indicazioni utilizzate dal costruttore. Ma, ad ogni modo, si nota il raro
interesse presentato dall’impiego della stessa formula sul grande tempio greco
di Paestum, costruito nel 565 a.C., e sul piccolo tempio etrusco di Volsinii.
All’interno, due muri laterali,
posati direttamente sul suolo, dividono il tempio in tre nel senso della
lunghezza. Gli spazi così delimitati a ovest e a est hanno esattamente la
stessa larghezza, che è di m. 4,10. Questi muri laterali hanno 8 metri di
lunghezza. Alla loro estremità sud rimane l’attaccatura di due muri di
divisione che vanno verso l’interno. Non abbiamo invece incontrato tracce di
tali muri verso l’esterno. La camera o cella centrale così costituita ha 8
metri di lunghezza e m. 6,60 di larghezza.
All’angolo nord-est della cella
sussistono quattro enormi blocchi di tufo ancora al loro posto. Poggiano sul
suolo, sono addossati ai muri e formano come l’inizio di una banchina che
doveva occupare tutto il fondo della cella. A m. 2,20 dal muro di fondo
appaiono due blocchi di tufo, disposti verticalmente e che raggiungono
un’altezza di un metro. Uno è situato a m. 1,50 dal muro ovest, l’altro a m.
1,20 dal muro est. Entrambi si trovano piazzati sulla stessa linea trasversale.
Infine, a m. 3,37 dal fondo della cella fu liberata la metà di una lastra
circolare di pietra, incastrata nella roccia e ancora al suo posto. Misura 1
metro di diametro e 30 centimetri di altezza. Essa è situata sull’asse centrale
di tutto il santuario, a distanza perfettamente uguale dai due muri laterali
della cella (pi. V, fig. 16). Un sondaggio sotto questa lastra non ha rilevato
che la terra vergine. Era la base di un pilastro o di un palo mediano?
Il materiale scoperto nel corso
dei lavori si è incontrato esclusivamente nella camera centrale. Si tratta
innanzi tutto di una gran quantità di frammenti di grosse tegole, sia piatte
sia semi-cilindriche. L’argilla è giallastra e mal cotta; sono evidentemente di
epoca preromana. Accanto a queste tegole è stato ritrovato un gran numero di
frammenti di ornamenti decorativi di terracotta, di un materiale simile a
quello delle tegole. Il loro stato è tale che un tentativo di restauro sarà
molto difficile; questi frammenti sono stati portati al museo di Villa Giulia.
Le sporgenze presentate da alcune di queste terrecotte sul loro lato
posteriore, i buchi che le perforano e attraverso i quali dovevano passare dei
chiodi che le fissavano a una parete, portano a ritenere che non si tratti di
antefisse, ma di placche decorative che formavano senza dubbio un fregio
interno. Su alcuni di questi frammenti figurano drappi o decorazioni
vegetali.Il frammento più grosso (pi. V, fig. 17) misura 25 centimetri di
altezza e 21 di larghezza. Vi sono raffigurati dei drappi. Un altro rappresenta
il piede di un personaggio che poggia su uno zoccolo alto 2 centimetri; su
questo piede ricadono le pieghe di un pesante drappeggio (pi. V, fig. 18).
Quest’ultimo frammento misura 17 centimetri di altezza e 18 di larghezza. Lo
stile un po’ tormentato dei drappeggi permette di datare questi elementi
decorativi dal III° o dal II° secolo a.C..
Fu ritrovato un materiale votivo
abbastanza povero, tra cui si distingue qualche frammento di vasi etruschi a
vernice nera. L’unico frammento decorato è un pezzo di patera di Cales
raffigurante una quadriga in rilievo. Alcune patere di Cales, uscite certamente
dallo stesso stampo, sono esposte al museo di Firenze e a quello di Fiesole.
Infine, verso l’angolo nord-est
della cella, furono scoperte sette monete di bronzo che datano alle prime
emissioni della Repubblica romana e presentano le immagini classiche della
prora e di Giano bifronte. Lo studio delle loro caratteristiche e del loro peso
indica che si tratta di assi sestanti posteriori alla riforma monetaria del 268
a.C. e di assi onciali posteriori a quella del 217 a.C.
.
Dopo questa analisi puramente
descrittiva della scoperta, vediamo quale posto viene ad occupare il nuovo
santuario volsiniese nella serie dei templi etrusco-italici già conosciuti. Si
sa che eccellenti studi, relativi a questo argomento, dovuti ad Agnès Kirsopp
Lake ed a Arvid Andren, sono stati pubblicati, la prima poco prima dell’ultima
guerra, la seconda all’inizio di quella
.
Questi studi e la visita delle rovine
ancora esistenti mostrano che dei templi etrusco-italici non restano che le
fondazioni e un materiale più o meno importante di tegole protettive e di
terrecotte decorative. E’ esattamente, come abbiamo visto, il caso della
scoperta volsiniese. Un fatto del genere si spiega facilmente: tutti questi
santuari sono stati abbandonati in un’epoca abbastanza alta e, d’altra parte, i
loro materiali di costruzione erano notevolmente deperibili. I loro muri erano
di mattoni poco cotti o di tufo, le colonne di tufo o di legno con decorazione
di terrecotte, la trabeazione e il tett
o interamente di
legno con un semplice rivestimento decorativo. Dei santuari etruschi, del resto
poco numerosi, che il caso o gli scavi hanno permesso di portare alla luce, non
resta dunque che i muri di fondazione e qualche tratto della sovrastruttura.
Numerosi ex-voto in terracotta raffiguranti la loro immagine ci aiutano per
fortuna a rappresentarli meglio
.
Per lo meno la pianta del
santuario volsiniese di Poggio Casetta è rimasta molto chiara e, grazie alla
protezione degli alberi che ricoprono la collina, le sue rovine tracciano un
disegno evidente sul terreno. Non sorprende che questa pianta non corrisponda
esattamente alla rigida formula che ci è stata trasmessa da Vitruvio; una tale
formula è, in effetti, una sorta di regola astratta, di media ideale, tratta da
Vitruvio dai diversi casi da lui conosciuti e che non corrisponde a nessuno dei
santuari etruschi finora scoperti; ma è giusto, tuttavia, rimarcare che tutti,
invece, più o meno vi si avvicinano.
Il tempio volsiniese è notevole
per il fatto che esso è costruito direttamente sulla roccia e che non c’è
traccia di podio. La natura del luogo rende questa anomalia facilmente
spiegabile. Il podio permetteva al tempio etrusco, come più tardi al tempio
romano, di elevarsi al di sopra delle costruzioni vicine. Qui qualunque podio è
reso inutile dalla posizione eccezionale del santuario. Costruito su un vero e
proprio sperone che dominava non solo la maggior parte della città, ma la regione
circostante, poteva poggiare direttamente sul suolo senza alcun tipo di
sopraelevazione. La natura del terreno, come accade così spesso in Etruria,
giustifica l’anomalia della costruzione. Ci sono altri esempi di tempi etruschi
costruiti senza podio: citiamo il tempio arcaico della Dea Marica a Minturno, i
due templi successivi di Mater Matuta a Satrico, quello più recente di Alatri.
Se si passa alla questione delle
proporzioni generali, un fatto, unico che io sappia, colpisce fin dall’inizio:
il tempio è più largo che lungo, la larghezza supera di 4 metri la lunghezza.
Certo, sappiamo bene che il tempio etrusco non aveva la forma allungata di
quello greco o ellenistico. Dedicato spesso a una triade, esso ostenta una
forma quasi quadrata che è la caratteristica dei santuari toscani e che in
seguito sarà riprodotta dai Capitolini romani. Secondo Vitruvio, la larghezza
deve essere uguale ai cinque sesti della lunghezza:
Locus in quo aedis constituetur, cum habuerit in longitudine sex
partes, una dempta reliquum quod erit latitudini detur.Qui
la larghezza supera la lunghezza di un terzo di questa. Non ci sono finora
altri esempi di ciò. La position du sanctuaire volsinien spiega anche, almeno
in parte, la stranezza delle sue porporzioni. Dato che il tempio è costruito
all’inizio di una pendenza e che questa si accentua rapidamente, era
impossibile per l’architetto dargli una grande lunghezza. Ancora una volta, il
terreno è all’origine del modo di costruire. In questo caso, l’architetto ha
sacrificato in parte il pronaos. Questo, invece di avere, secondo la
prescrizione di Vitruvio, una lunghezza pari alla metà di quella del tempio,
misura qui solo un terzo della lunghezza totale. Non abbiamo ritrovato qui
alcuna traccia di colonne. Ma tale assenza non ha niente di straordinario, le
colonne dei templi etruschi sono quasi completamente scomparse e gli scavi non
hanno mai permesso di ricostituirne una nella sua integrità.
Passiamo ora alla parte
posteriore del tempio. Secondo Vitruvio, il tempio etrusco è essenzialmente un
tempio tripartito, la sua parte posteriore è suddivisa in tre cellae, una centrale e due laterali, oppure
una cella e due alae, due ali che
prendono quindi il posto delle cellae
laterali. La cella centrale deve occupare i quattro decimi della larghezza del
tempio, ogni cella laterale o ogni ala, tre decimi della larghezza stessa: Latitudo dividatur in partes très. Ex his
ternae partes dextra ac sinistra cellis minoribus, sive ibi alae futurae sunt,
dentur : reliquae quatuor mediae aedi attribuantur.
Di fatto, tutti i templi etruschi
conosciuti non sono tripartiti, alcuni, come quelli di Volterra, di Cerveteri,
consistono in una semplice cella preceduta da un pronaos. Tuttavia, la grande
maggioranza dei templi toscani è conforme alla formula vitruviana. Il tempio di
Volsinii rientra in questa categoria. Anch’esso è tripartito, i due muri
interni determinano una cella centrale la cui larghezza è pressappoco uguale ai
quattro decimi della larghezza totale, e due spazi laterali, la cui rispettiva
larghezza equivale ai tre decimi di quella del tempio. Questi spazi laterali
sono delle cellae, sono ciò che
Vitruvio chiama delle alae, delle
ali?
Si è molto discusso sulla natura
di queste ali. Sembra comunque certo che la differenza tra un tempio a tre cellae e un tempio a una cella e due ali
consiste nel seguente fatto: nel primo caso, un muro continuo e forato da tre
porte separa le tre cellae dal
pronaos, nel secondo caso, solo il settore centrale è chiuso da un muro forato
da una porta. L’ultimo caso è quello del tempio di Lavinio e quello del tempio
di Fiesole: questo sembra essere anche quello del tempio di Volsinii.
In effetti, mentre abbiamo
ritrovato l’inizio del muro che forma la cella centrale, niente di simile è
stato scoperto né a destra né a sinistra. Se a ciò si aggiunge che i frammenti
di tegole e di terrecotte sono stati ritrovati unicamente nella cella centrale,
ne dobbiamo concludere che ci troviamo sì in presenza di un tempio tripartito,
ma che questo comprendeva una sola cella attorniata da due ali.
Una simile pianta si spiega
storicamente molto bene. I templi toscani dedicati a una triade erano i più
numerosi; anche i templi dedicati a una sola divinità, come è il caso del
tempio di Giunone Sospita a Lanuvio e senza dubbio anche del tempio volsiniese,
sono stati ugualmente costruiti secondo una pianta tripartita. Ricordiamo che
il tempio tripartito dell’Etruria trae senza dubbio le sue origini dalla
civiltà orientale pre-ellenica, dove la civiltà toscana ha essa stessa le sue radici.
Che si pensi ai templi tripartiti
del mondo minoico e miceneo, ai santuari tripartiti di Tepe Gawra in
Mesopotamia, è da questa parte che bisogna voltarsi per ritrovare i lontani
modelli del tempio toscano.
Studiamo, infine, la disposizione
interna della cella centrale. L’argomento, questa volta, non viene sfiorato da
Vitruvio e gli edifici sacri scoperti in Etruria sono così rovinati dal tempo
che nemmeno forniscono alcuna indicazione al riguardo. A Volsinii abbiamo avuto
la fortuna di trovare alcuni elementi al loro posto. I blocchi di tufo,
addossati al muro di fondo, dovevano far parte di una sorta di ampia banchina,
sulla quale si depositavano senza dubbio le offerte e gli ex-voto. I due
blocchi incastrati e simmetrici che si ergono a due metri davanti al muro di
fondo fanno parte di questo insieme.
Più strana è la presenza della
lastra di pietra situata in mezzo alla cella, sull’asse mediano del santuario.
Nella serie di templi etrusco-italici, è attestato un solo fatto analogo, ma
non identico: nel piccolo tempio di Alatri, che fu scavato alla fine del XIX°
secolo, una base rotonda di peperino, incastrata nel suolo, è apparsa nell’asse
mediano del santuario. Tuttavia, essa non si trova nella cella, ma nella parte
anteriore del pronaos. Andren suggerisce che essa serviva probabilmente da
altare
.Un’ipotesi
del genere, plausibile nel caso di Alatri, sembra poco verosimile in quello del
tempio volsiniese; perché la lastra questa voltaè piazzata nel bel mezzo della
cella stessa. Bisogna vederci senza dubbio una base destinata a sostenere una
statua di culto, il cui posto era indicato al centro della camera sacra,
davanti alla banchina destinata alle offerte.
In totale assenza di iscrizioni,
la datazione è difficile. Il materiale trovato sul posto indica solo un terminus ante quem, l’epoca in cui il
tempio è stato definitivamente abbandonato. Dato che questo materiale risale
alla fine del III o del II secolo e non è che di poco posteriore alla conquista
della città etrusca da parte dei Romani, apprendiamo da ciò che il santuario fu
abbandonato molto presto dai vincitori. La pianta generale del tempio ha un
evidente carattere di arcaismo; la sua forma più larga che lunga, l’insieme
cultuale che appare nella cella centrale, tutto ci riconduce verso un’epoca
abbastanza alta, VI o V secolo, verso un momento in cui le influenze
dell’Oriente mediterraneo si fanno ancora sentire con vigore presso un popolo
che non ha lasciato da troppo tempo le rive asiatiche. Il tempio non è stato né
restaurato, né ricostruito in epoca romana.
A quale divinità era dedicato il
santuario? La cella unica prova che si tratta di una sola divinità e non di una
triade. L’immediata prossimità del santuario scoperto da Gabrici nel 1906 e
dedicato a Nortia potrebbe far pensare che la stessa divinità era onorata nel
santuario di Poggio Casetta, ma non si può nascondere la fragilità di una tale
ipotesi.
Nonostante le loro estreme
mutilazioni, i frammenti di terrecotte trovati nella cella centrale hanno
permesso un accostamento interessante. Una serie di antefisse provenienti da
Bolsena, ma il cui luogo preciso di scoperta è incerto, è esposta al museo
archeologico di Firenze, nella sala dei
Volsinienses(fig.
19). Esse rappresentano un certo numero di divinità e di personaggi diversi. Vi
si vede Minerva, con l’elmo e l’egida, che avanza a passo rapido davanti a una
donna drappeggiata e immobile, la cui testa è scomparsa. Un’altra antefissa
presenta l’immagine di due uomini drappeggiati che sono in piedi in
atteggiamento calmo. Anche le loro teste sono scomparse. Su una terza piastra
appare il corpo seminudo di una giovane donna: la sua testa è tagliata e dalla
ferita del collo esce un serpente. Figura sorprendente, forse quella della
Medusa, cosa che spiegherebbe la presenza di Minerva protettrice di Perseo.
Delle iscrizioni etrusche sono incise sulla base di queste antefisse
.
Sotto la figura di Minerva è inciso il nome
Mera,
che è il nome della divinità in etrusco. A fianco si legge quello di
Cilens, nome di divinità etrusca che si
ritrova sul fegato di bronzo di Piacenza e che designa, secondo Thulin, una dea
del destino
.
Le altre iscrizioni presentano i nomi di
thuluther,
vitaniceshusur, che sono
evidentemente quelle delle divinità o degli eroi rappresentati, ma che non si
sono potuti identificare.
Sebbene il museo archeologico di
Firenze fosse ancora chiuso al pubblico, abbiamo potuto confrontare sul posto,
grazie alla cortesia del direttore del museo, Sig. Minto, i frammenti trovati
al tempio di Poggio Casetta con questa serie di antefisse. Il materiale degli
uni e delle altre è esattamente simile, lo stile è identico. Qui è là, stessa
maniera di trattare le pieghe dei drappeggi che evoca un po’ l’arte delle
scuole ellenistiche dell’Asia Minore e che non si ritrova affatto nelle altre
terrecotte già conosciute
.
Si può dunque concludere che le terrecotte del museo di Firenze provengono dal
santuario scoperto nel 1948. Il tempio volsiniese sarebbe stato così decorato
da una bella serie di antefisse raffiguranti una versione del mito della Gorgone.
Alcuni pezzi di un fregio
originario di Bolsena e che presenta l’immagine di mostricavalcati da amorini
alati sono di uno stile paragonabile e potrebbero provenire dallo stesso
edificio
.Un’altra
serie di terrecotte architettoniche, provenienti ugualmente da Bolsena, è di
estremo interesse. Si tratta di frammenti di fregi decorati di palmette e
ornati di figure impressionanti di Lase e di Caronte. Queste piastre di
rivestimento sono state ripartite tra diversi musei di Roma. Esse risalgono al IV
secolo a.C. e hanno stimolato numerosi e approfonditi studi
.
La loro provenienza è necessariamente diversa da quella delle antefisse sopra
descritte e conservate al museo di Firenze.
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