domenica 12 novembre 2017

Campagna Scavo "Porta Capite" 2017

RIPRODUZIONE VIETATA©Tutti i diritti riservati - all rights reserved

 SOPRINTENDENZA ARCHEOLOGIA BELLE ARTI E PAESAGGIO

Per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo

 e l’Etruria Meridionale
 Dott.ssa Alfonsina Russo Tagliente


Campagna di scavo
Porta Capite 2017

DIREZIONE: Archeologa, Dott.ssa Maria Letizia Arancio (SABAP-E.M.)

 ASSISTENTE DI SCAVO  e RILIEVI IN 3D; Egidio Severi (SABAP-E.M.)

SUL CAMPO: Gruppo Archeologico Velzna “Alessandro Fioravanti”


2-30 maggio 2017
2a Campagna di scavo
“Porta Capite” – loc. Poggetto

Il racconto per immaggini

La prima campagna di questo anno si apre con la consueta ripulitura di tutto il terreno, seguita dai primi lavori indicati dal Piano Sicurezza che prevedono la delimitazione di tutta l’area e l’esclusione di porzioni della stessa. L’effetto visivo che si nota è quello di un percorso a serpentina, che porta direttamente alla zona interessata dallo scavo. Sul campo si svolge  il corso sulla sicurezza in cantiere, necessario per poter riprendere il lavoro di scavo che interessa l’interno  dell’area selezionata partendo dalla fine lavori del 2016 (“torre”).  









3a Campagna di scavo
2-28 ottobre 2017
“Porta Capite” – loc. Poggetto

PARTECIPAZIONE STRAORDINARIA
Archeologo, dott. Paolo Binaco
Assistente Carlotta Saletti

Il racconto per immagini

L’inizio del secondo intervento coincide di nuovo con la pulizia del terreno e dell’area di scavo. Le aree interessate dalla ricerca sono due: una porzione interna della “torre” che si presenta da subito molto impegnativa; e l’altrettanto impegnativa area presso il “banco roccioso” che  ha visto all’opera anche la Soprintendente, Dott.ssa Maria Letizia Arancio. 
In questa seconda campagna dell’anno, il Gruppo Archeologico è affiancato dall’archeologo Dott. Paolo Binaco, assisitito da Carlotta Saletti.
















Fine campagna 2017
Una considerazione vale per tutto l’insieme:  per centinaia di anni,  il terreno in cui si trovano tutte le strutture murarie risulta essere stato manomesso dall’opera umana e dalla natura alluvionale del territorio. Pertanto l'acquisizione di dati e la conseguente ricostruzione archeologica richiederà studi approfonditi e ulteriori ricerche che necessariamente dovranno proseguire al fine di non vanificare ciò che si è iniziato e perdere, ancora una volta, un importante frammento della storia di Bolsena. Così mentre il compito di dipanare la matassa in merito a quanto è emerso fino ad oggi e a quanto emergerà in futuro  spetterà alle relazioni degli archeologi, al Gruppo Archeologico Velzna ed ai suoi soci volontari spetterà come sempre quello di “muovere le montagne”.


RINGRAZIAMENTI

Il Consiglio Direttivo del Gruppo Archeologico Velzna ringrazia

La Soprintendente, Dott.ssa Maria Letizia Arancio, per aver proseguito la ricerca intrapresa nel 2016 dal Dott. Enrico Pellegrini, prematuramente scomparso.
Grazie di cuore per aver accettato questa eredità, che è anche una sfida difficile e stimolante nello stesso tempo.

Il Dott. Paolo Binaco che, per un mese ed in forma del tutto volontaria, si è prestato a Bolsena ed al Gruppo Archeologico Velzna.

Il geometra Michele Sportoloni che, in forma gratuita, ha redatto il  Piano Sicurezza e ha tenuto il conseguente corso sulla sicurezza in cantiere. 

Grazie a Egidio Severi che, seppure più impegnato questo anno, ha fornito la consueta assistenza e fatto volare DjI Phantom per i rilievi in 3D.

Grazie ai geologi del Museo di Geologia e delle Frane di Civita di Bagnoregio

Un ringraziamento speciale agli archeologi che hanno visitato l’area di Porta Capite per il contributo di idee e gli incoraggiamenti ricevuti.

Grazie  a Carlotta Saletti a cui auguriamo “in bocca al lupo” per la  tesi di laurea.

Grazie a tutti i soci volontari del G.A.Velzna che sono stati presenti sul campo, a maggio e ottobre: tra questi ultimi, un ringraziamento particolare va a Chiara, socia e archeologa. 
Una menzione d’onore agli uomini e, soprattutto, alle donne presenti ad ottobre che con tenacia e forza fisica sorprendente sono riusciti a “muovere le montagne”.


Quel che si trova nell'effetto era già nella causa
(Hernri-Louis Bergson)


RIPRODUZIONE VIETATA©tutti i diritti riservati

lunedì 10 aprile 2017

Riscoprire un tempio. Il tempio di Poggio Casetta

C'è voluto del tempo, tre mesi più o meno, da febbraio ad aprile; c'è voluto tanto impegno; c'è voluta tanta pazienza; c'è voluta tanta fatica ma poi alla fine i risultati si sono visti...e anche molto bene. 

Questa volta la nostra buona azione archeologica è andata a riscoprire il tempio di Poggio Casetta, una località in collina sopra Bolsena.

Scavato dall' Ecole Française d'Archeologie di Roma, abbandonato da tutti, etruschi e romani compresi, mai più ricostruito e riutilizzato, disperso nella lussureggiante vegetazione bolsenese, il tempio di Poggio Casetta (già ripulito anni fa da uno sparuto gruppo di cittadini volenterosi) ha attirato la nostra attenzione per la sua posizione e per la sua storia che abbiamo ripreso e tradotto nel post Il tempio di Poggio Casetta. 

E' stato necessario, inizialmente, creare un varco tra la folta vegetazione che potesse permettere il nostro passaggio per risalire sulla sommità della collina e iniziare il lavoro vero così da riscoprire ciò che resta di una tempio arcaico, ad una sola cella, dedicato ad una divinità sconosciuta.

Non è stato facile, anzi è stato decisamente faticoso considerato che i nostri attrezzi sono stati forbici, seghetti e motosega dove necessario, ma soprattutto braccia gambe e schiena.

Il nostro lavoro  ha comunque portato ad una prima valutazione delle condizioni effettive del sito da parte della Soprintendente di zona, archeologa-etruscologa, Dott.ssa Maria Letizia Arancio sotto la cui direzione si è svolto il nostro intervento. In questa occasione sono tornati a farci visita due graditi ospiti:il Prof. Adriano Maggiani (Ca' Foscari) e la Dott. ssa Simona Rafanelli (Direttrice Museo Vetulonia).

Alla fine, il risultato di questa ripulitura complessa si vede benissimo. Anche dall'alto.


 
 
 











 















































 
 

 

 

 
 
 



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venerdì 24 febbraio 2017

Il Tempio di Poggio Casetta nella traduzione da R. Bloch. A cura del G.A.Velzna


Traduzione di Sandra Dottarelli per Gruppo Archeologico Velzna “Alessandro Fioravanti”
RIPRODUZIONE VIETATA©tutti i diritti servati

Tratto da: Volsinies étrusque et romaine. Nouvelles découvertes archéologiques et épigraphiques  di Raymond Bloch - Pubblicato in MEFRA- 1950

VOLSINII ETRUSCA E ROMANA
NUOVE SCOPERTE ARCHEOLOGICHE ED EPIGRAFICHE

Di

Raymond Bloch
Membro Anziano dell’École

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Gli scavi nella regione di Bolsena, dei quali Albert Grenier, direttore della Scuola Francese di Roma, volle affidarmi la direzione, si svolsero a maggio, giugno e ottobre 1946, maggio e giugno 1947 e maggio 1948. Un recente articolo ha già esposto i principali risultati delle campagne del 1946[1].Solo alcune brevi comunicazioni o rendiconti hanno fornito finora un rapido quadro degli insegnamenti apportati dalle campagne degli anni seguenti[2]. Vorrei dare qui una descrizione la più fedele e completa possibile dei risultati degli scavi del 1947 e 1948, dedicandomi poi ai monumenti, ai documenti illustrati e alle iscrizioni che furono allora scoperti e meritano di essere studiati (pianta, fig. 1)[3].



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Tra le colline della città alta, Poggio Casetta attirò la nostra attenzione per la sua posizione centrale. All’inizio del secolo, Gabrici aveva scoperto, ai piedi della collina, un edificio sacro che, accanto a resti propriamente romani, presentava ancora parti di possenti mura isodome di epoca etrusca[4]. Gabrici aveva creduto di riconoscere in questo tempio il santuario della Dea Nortia e la sua identificazione sembra, in effetti, probabile[5]. Ma, da sostenitore della localizzazione della Volsinii etrusca a Orvieto, vedeva lì una costruzione romana, successiva forse a una costruzione più antica, ma dove la Dea Nortia non poteva essere stata venerata che dai Romani. I lavori della Scuola Francese portano a ritenere che questo edificio fosse susseguito sul posto al santuario etrusco di Nortia, nel cui muro, apprendiamo da Tito Livio, si piantava ogni anno un chiodo per contare il numero degli anni[6]. Una delle scoperte più curiose fatte dal Gabrici era stata quella di un pozzo immenso, trovato all’angolo sud del santuario e il cui diametro era di 2 metri e la profondità di m. 14,50. La parte superiore di questo pozzo, nella quale si gettavano gli ex-voto, è stata ricostituita con fedeltà nel giardino del museo archeologico di Firenze. La costruzione consiste in grossi blocchi di tufo sovrapposti senza leganti cementizi e risale certamente all’epoca etrusca.
Lo stesso Poggio Casetta sembrava poco propizio per un’esplorazione archeologica. La collina è troppo stretta e scoscesa, la sua sommità, interamente ricoperta di alberi, ha una superficie piana molto limitata. La roccia lì è molto vicina, lo strato di terra superficiale molto sottile. Ciononostante, la sua esplorazione riservò una felice sorpresa. Due trincee, tracciate perpendicolarmente l’una all’altra, permisero, sin dal primo giorno di scavo in questo punto, di incontrare dei muri di fondazione incastrati nella roccia. Apparve subito urgente liberare la sommità dagli alberi più fastidiosi per lo scavo, e fu allora possibile ritrovare i resti di un santuario etrusco che occupava la cima del Poggio. Da questo punto la vista permette di abbracciare un panorama magnifico da Montefiascone a sud fino all’imponente profilo del Monte Amiata a nord e comprendente la vasta superficie argentea del lago volsiniese, in mezzo al quale sembrano fluttuare le due piccole isole dalle pareti scoscese e rocciose, l’Isola Martana e l’Isola Bisentina. Subito ai piedi della collina cominciava la zona residenziale della città etrusca. La sommità del Poggio era quindi una posizione ideale per un tempio, da dove gli Dei potevano sorvegliare l’immensità del paesaggio e la città che si trovava sotto la loro protezione.
Esaminiamo innanzi tutto la pianta del santuario (fig. 12 e 13) e vediamo in seguito in quale misura esso è conforme a ciò che già conosciamo del tempio etrusco-italico, grazie alle rovine riesumate in territorio etrusco e grazie alla formula del tempio toscano che Vitruvio ci ha tramandato nel suo trattato di architettura[7].




Il tempio è costruito direttamente sulla roccia, non c’è traccia di podio. Il livello di base del tempio era esso stesso di roccia che abbiamo rapidamente raggiunto, essendo ricoperto solo da uno strato di terra di meno di un metro di spessore. I muri esterni del tempio erano incastrati nella roccia, all’interno della quale erano stati scavati dei lunghi corridoi destinati a ricevere le loro fondamenta. Questi muri sono fatti di blocchi di tufo e frammenti di rocce alternati, senza leganti cementizi. Il loro spessore è mediamente di m. 0,60. Il muro nord, quello meglio conservato, è stato liberato per un’altezza di m. 1,50. Fatto molto curioso, il tempio è stato costruito appena prima della sommità della collina, in un punto dove già si delinea la pendenza. In queste condizioni, i muri di fondazione est e ovest poggiano su un suolo inclinato e un dislivello di 2 metri separa le loro estremità nord e le loro estremità sud. Il muro sud è interrotto al centro; là era l’entrata del tempio alla quale portava una rampa a tornanti multipli.
Il rilevamento delle proporzioni dell’edificio rivela una particolarità, percepibile, del resto, a occhio nudo. Il tempio è più largo che lungo: la sua larghezza totale è, in effetti, di m. 17,20, la lunghezza raggiunge m. 13,40, misurando a partire dall’estremità dei muri. L’orientamento del tempio è, come di regola in Etruria, sensibilmente nord-sud. Sul blocco di tufo che forma l’angolo sud-ovest del tempio sono incise due lettere etrusche, W ed E (pi. IV, fig. 14), su un blocco del muro nord  appare un segno in forma di V.
Rileggendo il diploma di studi superiori che aveva redatto nel 1936 il mio collega e amico Paul-Marie Duval, e che s’intitola “Ricerche di storia e d’archeologia sullo stato delle questioni concernenti Poseidonia (Paestum)”, constato con sorpresa che, sulla faccia sud dello stereobate del tempio ennastilo di Paestum, si legge un’iscrizione del tutto simile a quella che appare all’angolo sud-ovest del tempio volsiniese. Si tratta ancora di un W, vale a dire di un sigma di forma arcaica e di una E (pi. IV, fig. 15). Il fatto è estremamente curioso e merita di essere visto da vicino.
Non soltanto le iscrizioni rilevate sul tempio volsiniese e sull’ennastilo di Paestum sono le stesse, ma entrambe appaiono all’angolo sud-ovest dei due santuari. A Volsini, come ho detto, figura sul blocco stesso che forma l’angolo sud-ovest del tempio, quella di Paestum appare, come apprendo da P.M. Duval, sulla faccia sud dell’ennastilo, a brevissima distanza dall’angolo sud-ovest. L’estrema somiglianza delle due iscrizioni (l’unica differenza tra loro è che sull’iscrizione volsiniese il sigma ha una gamba in più che sull’iscrizione di Paestum), l’identità della loro posizione nei due casi, dimostrano, a mio avviso, che non è una semplice coincidenza. Forse in entrambi i casi si tratta di indicazioni utilizzate dal costruttore. Ma, ad ogni modo, si nota il raro interesse presentato dall’impiego della stessa formula sul grande tempio greco di Paestum, costruito nel 565 a.C., e sul piccolo tempio etrusco di Volsinii.
All’interno, due muri laterali, posati direttamente sul suolo, dividono il tempio in tre nel senso della lunghezza. Gli spazi così delimitati a ovest e a est hanno esattamente la stessa larghezza, che è di m. 4,10. Questi muri laterali hanno 8 metri di lunghezza. Alla loro estremità sud rimane l’attaccatura di due muri di divisione che vanno verso l’interno. Non abbiamo invece incontrato tracce di tali muri verso l’esterno. La camera o cella centrale così costituita ha 8 metri di lunghezza e m. 6,60 di larghezza.
All’angolo nord-est della cella sussistono quattro enormi blocchi di tufo ancora al loro posto. Poggiano sul suolo, sono addossati ai muri e formano come l’inizio di una banchina che doveva occupare tutto il fondo della cella. A m. 2,20 dal muro di fondo appaiono due blocchi di tufo, disposti verticalmente e che raggiungono un’altezza di un metro. Uno è situato a m. 1,50 dal muro ovest, l’altro a m. 1,20 dal muro est. Entrambi si trovano piazzati sulla stessa linea trasversale. Infine, a m. 3,37 dal fondo della cella fu liberata la metà di una lastra circolare di pietra, incastrata nella roccia e ancora al suo posto. Misura 1 metro di diametro e 30 centimetri di altezza. Essa è situata sull’asse centrale di tutto il santuario, a distanza perfettamente uguale dai due muri laterali della cella (pi. V, fig. 16). Un sondaggio sotto questa lastra non ha rilevato che la terra vergine. Era la base di un pilastro o di un palo mediano?
Il materiale scoperto nel corso dei lavori si è incontrato esclusivamente nella camera centrale. Si tratta innanzi tutto di una gran quantità di frammenti di grosse tegole, sia piatte sia semi-cilindriche. L’argilla è giallastra e mal cotta; sono evidentemente di epoca preromana. Accanto a queste tegole è stato ritrovato un gran numero di frammenti di ornamenti decorativi di terracotta, di un materiale simile a quello delle tegole. Il loro stato è tale che un tentativo di restauro sarà molto difficile; questi frammenti sono stati portati al museo di Villa Giulia. Le sporgenze presentate da alcune di queste terrecotte sul loro lato posteriore, i buchi che le perforano e attraverso i quali dovevano passare dei chiodi che le fissavano a una parete, portano a ritenere che non si tratti di antefisse, ma di placche decorative che formavano senza dubbio un fregio interno. Su alcuni di questi frammenti figurano drappi o decorazioni vegetali.Il frammento più grosso (pi. V, fig. 17) misura 25 centimetri di altezza e 21 di larghezza. Vi sono raffigurati dei drappi. Un altro rappresenta il piede di un personaggio che poggia su uno zoccolo alto 2 centimetri; su questo piede ricadono le pieghe di un pesante drappeggio (pi. V, fig. 18). Quest’ultimo frammento misura 17 centimetri di altezza e 18 di larghezza. Lo stile un po’ tormentato dei drappeggi permette di datare questi elementi decorativi dal III° o dal II° secolo a.C..
Fu ritrovato un materiale votivo abbastanza povero, tra cui si distingue qualche frammento di vasi etruschi a vernice nera. L’unico frammento decorato è un pezzo di patera di Cales raffigurante una quadriga in rilievo. Alcune patere di Cales, uscite certamente dallo stesso stampo, sono esposte al museo di Firenze e a quello di Fiesole.
Infine, verso l’angolo nord-est della cella, furono scoperte sette monete di bronzo che datano alle prime emissioni della Repubblica romana e presentano le immagini classiche della prora e di Giano bifronte. Lo studio delle loro caratteristiche e del loro peso indica che si tratta di assi sestanti posteriori alla riforma monetaria del 268 a.C. e di assi onciali posteriori a quella del 217 a.C.[8].
Dopo questa analisi puramente descrittiva della scoperta, vediamo quale posto viene ad occupare il nuovo santuario volsiniese nella serie dei templi etrusco-italici già conosciuti. Si sa che eccellenti studi, relativi a questo argomento, dovuti ad Agnès Kirsopp Lake ed a Arvid Andren, sono stati pubblicati, la prima poco prima dell’ultima guerra, la seconda all’inizio di quella[9].
Questi studi e la visita delle rovine ancora esistenti mostrano che dei templi etrusco-italici non restano che le fondazioni e un materiale più o meno importante di tegole protettive e di terrecotte decorative. E’ esattamente, come abbiamo visto, il caso della scoperta volsiniese. Un fatto del genere si spiega facilmente: tutti questi santuari sono stati abbandonati in un’epoca abbastanza alta e, d’altra parte, i loro materiali di costruzione erano notevolmente deperibili. I loro muri erano di mattoni poco cotti o di tufo, le colonne di tufo o di legno con decorazione di terrecotte, la trabeazione e il tetto interamente di legno con un semplice rivestimento decorativo. Dei santuari etruschi, del resto poco numerosi, che il caso o gli scavi hanno permesso di portare alla luce, non resta dunque che i muri di fondazione e qualche tratto della sovrastruttura. Numerosi ex-voto in terracotta raffiguranti la loro immagine ci aiutano per fortuna a rappresentarli meglio[10].
Per lo meno la pianta del santuario volsiniese di Poggio Casetta è rimasta molto chiara e, grazie alla protezione degli alberi che ricoprono la collina, le sue rovine tracciano un disegno evidente sul terreno. Non sorprende che questa pianta non corrisponda esattamente alla rigida formula che ci è stata trasmessa da Vitruvio; una tale formula è, in effetti, una sorta di regola astratta, di media ideale, tratta da Vitruvio dai diversi casi da lui conosciuti e che non corrisponde a nessuno dei santuari etruschi finora scoperti; ma è giusto, tuttavia, rimarcare che tutti, invece, più o meno vi si avvicinano.
Il tempio volsiniese è notevole per il fatto che esso è costruito direttamente sulla roccia e che non c’è traccia di podio. La natura del luogo rende questa anomalia facilmente spiegabile. Il podio permetteva al tempio etrusco, come più tardi al tempio romano, di elevarsi al di sopra delle costruzioni vicine. Qui qualunque podio è reso inutile dalla posizione eccezionale del santuario. Costruito su un vero e proprio sperone che dominava non solo la maggior parte della città, ma la regione circostante, poteva poggiare direttamente sul suolo senza alcun tipo di sopraelevazione. La natura del terreno, come accade così spesso in Etruria, giustifica l’anomalia della costruzione. Ci sono altri esempi di tempi etruschi costruiti senza podio: citiamo il tempio arcaico della Dea Marica a Minturno, i due templi successivi di Mater Matuta a Satrico, quello più recente di Alatri.


Se si passa alla questione delle proporzioni generali, un fatto, unico che io sappia, colpisce fin dall’inizio: il tempio è più largo che lungo, la larghezza supera di 4 metri la lunghezza. Certo, sappiamo bene che il tempio etrusco non aveva la forma allungata di quello greco o ellenistico. Dedicato spesso a una triade, esso ostenta una forma quasi quadrata che è la caratteristica dei santuari toscani e che in seguito sarà riprodotta dai Capitolini romani. Secondo Vitruvio, la larghezza deve essere uguale ai cinque sesti della lunghezza: Locus in quo aedis constituetur, cum habuerit in longitudine sex partes, una dempta reliquum quod erit latitudini detur[11].Qui la larghezza supera la lunghezza di un terzo di questa. Non ci sono finora altri esempi di ciò. La position du sanctuaire volsinien spiega anche, almeno in parte, la stranezza delle sue porporzioni. Dato che il tempio è costruito all’inizio di una pendenza e che questa si accentua rapidamente, era impossibile per l’architetto dargli una grande lunghezza. Ancora una volta, il terreno è all’origine del modo di costruire. In questo caso, l’architetto ha sacrificato in parte il pronaos. Questo, invece di avere, secondo la prescrizione di Vitruvio, una lunghezza pari alla metà di quella del tempio, misura qui solo un terzo della lunghezza totale. Non abbiamo ritrovato qui alcuna traccia di colonne. Ma tale assenza non ha niente di straordinario, le colonne dei templi etruschi sono quasi completamente scomparse e gli scavi non hanno mai permesso di ricostituirne una nella sua integrità.
Passiamo ora alla parte posteriore del tempio. Secondo Vitruvio, il tempio etrusco è essenzialmente un tempio tripartito, la sua parte posteriore è suddivisa in tre cellae, una centrale e due laterali, oppure una cella e due alae, due ali che prendono quindi il posto delle cellae laterali. La cella centrale deve occupare i quattro decimi della larghezza del tempio, ogni cella laterale o ogni ala, tre decimi della larghezza stessa: Latitudo dividatur in partes très. Ex his ternae partes dextra ac sinistra cellis minoribus, sive ibi alae futurae sunt, dentur : reliquae quatuor mediae aedi attribuantur.
Di fatto, tutti i templi etruschi conosciuti non sono tripartiti, alcuni, come quelli di Volterra, di Cerveteri, consistono in una semplice cella preceduta da un pronaos. Tuttavia, la grande maggioranza dei templi toscani è conforme alla formula vitruviana. Il tempio di Volsinii rientra in questa categoria. Anch’esso è tripartito, i due muri interni determinano una cella centrale la cui larghezza è pressappoco uguale ai quattro decimi della larghezza totale, e due spazi laterali, la cui rispettiva larghezza equivale ai tre decimi di quella del tempio. Questi spazi laterali sono delle cellae, sono ciò che Vitruvio chiama delle alae, delle ali?
Si è molto discusso sulla natura di queste ali. Sembra comunque certo che la differenza tra un tempio a tre cellae e un tempio a una cella e due ali consiste nel seguente fatto: nel primo caso, un muro continuo e forato da tre porte separa le tre cellae dal pronaos, nel secondo caso, solo il settore centrale è chiuso da un muro forato da una porta. L’ultimo caso è quello del tempio di Lavinio e quello del tempio di Fiesole: questo sembra essere anche quello del tempio di Volsinii.
In effetti, mentre abbiamo ritrovato l’inizio del muro che forma la cella centrale, niente di simile è stato scoperto né a destra né a sinistra. Se a ciò si aggiunge che i frammenti di tegole e di terrecotte sono stati ritrovati unicamente nella cella centrale, ne dobbiamo concludere che ci troviamo sì in presenza di un tempio tripartito, ma che questo comprendeva una sola cella attorniata da due ali.
Una simile pianta si spiega storicamente molto bene. I templi toscani dedicati a una triade erano i più numerosi; anche i templi dedicati a una sola divinità, come è il caso del tempio di Giunone Sospita a Lanuvio e senza dubbio anche del tempio volsiniese, sono stati ugualmente costruiti secondo una pianta tripartita. Ricordiamo che il tempio tripartito dell’Etruria trae senza dubbio le sue origini dalla civiltà orientale pre-ellenica, dove la civiltà toscana ha essa stessa le sue radici.
Che si pensi ai templi tripartiti del mondo minoico e miceneo, ai santuari tripartiti di Tepe Gawra in Mesopotamia, è da questa parte che bisogna voltarsi per ritrovare i lontani modelli del tempio toscano.
Studiamo, infine, la disposizione interna della cella centrale. L’argomento, questa volta, non viene sfiorato da Vitruvio e gli edifici sacri scoperti in Etruria sono così rovinati dal tempo che nemmeno forniscono alcuna indicazione al riguardo. A Volsinii abbiamo avuto la fortuna di trovare alcuni elementi al loro posto. I blocchi di tufo, addossati al muro di fondo, dovevano far parte di una sorta di ampia banchina, sulla quale si depositavano senza dubbio le offerte e gli ex-voto. I due blocchi incastrati e simmetrici che si ergono a due metri davanti al muro di fondo fanno parte di questo insieme.
Più strana è la presenza della lastra di pietra situata in mezzo alla cella, sull’asse mediano del santuario. Nella serie di templi etrusco-italici, è attestato un solo fatto analogo, ma non identico: nel piccolo tempio di Alatri, che fu scavato alla fine del XIX° secolo, una base rotonda di peperino, incastrata nel suolo, è apparsa nell’asse mediano del santuario. Tuttavia, essa non si trova nella cella, ma nella parte anteriore del pronaos. Andren suggerisce che essa serviva probabilmente da altare[12].Un’ipotesi del genere, plausibile nel caso di Alatri, sembra poco verosimile in quello del tempio volsiniese; perché la lastra questa voltaè piazzata nel bel mezzo della cella stessa. Bisogna vederci senza dubbio una base destinata a sostenere una statua di culto, il cui posto era indicato al centro della camera sacra, davanti alla banchina destinata alle offerte.
In totale assenza di iscrizioni, la datazione è difficile. Il materiale trovato sul posto indica solo un terminus ante quem, l’epoca in cui il tempio è stato definitivamente abbandonato. Dato che questo materiale risale alla fine del III o del II secolo e non è che di poco posteriore alla conquista della città etrusca da parte dei Romani, apprendiamo da ciò che il santuario fu abbandonato molto presto dai vincitori. La pianta generale del tempio ha un evidente carattere di arcaismo; la sua forma più larga che lunga, l’insieme cultuale che appare nella cella centrale, tutto ci riconduce verso un’epoca abbastanza alta, VI o V secolo, verso un momento in cui le influenze dell’Oriente mediterraneo si fanno ancora sentire con vigore presso un popolo che non ha lasciato da troppo tempo le rive asiatiche. Il tempio non è stato né restaurato, né ricostruito in epoca romana.
A quale divinità era dedicato il santuario? La cella unica prova che si tratta di una sola divinità e non di una triade. L’immediata prossimità del santuario scoperto da Gabrici nel 1906 e dedicato a Nortia potrebbe far pensare che la stessa divinità era onorata nel santuario di Poggio Casetta, ma non si può nascondere la fragilità di una tale ipotesi.
Nonostante le loro estreme mutilazioni, i frammenti di terrecotte trovati nella cella centrale hanno permesso un accostamento interessante. Una serie di antefisse provenienti da Bolsena, ma il cui luogo preciso di scoperta è incerto, è esposta al museo archeologico di Firenze, nella sala dei Volsinienses(fig. 19). Esse rappresentano un certo numero di divinità e di personaggi diversi. Vi si vede Minerva, con l’elmo e l’egida, che avanza a passo rapido davanti a una donna drappeggiata e immobile, la cui testa è scomparsa. Un’altra antefissa presenta l’immagine di due uomini drappeggiati che sono in piedi in atteggiamento calmo. Anche le loro teste sono scomparse. Su una terza piastra appare il corpo seminudo di una giovane donna: la sua testa è tagliata e dalla ferita del collo esce un serpente. Figura sorprendente, forse quella della Medusa, cosa che spiegherebbe la presenza di Minerva protettrice di Perseo. Delle iscrizioni etrusche sono incise sulla base di queste antefisse[13]. Sotto la figura di Minerva è inciso il nome Mera, che è il nome della divinità in etrusco. A fianco si legge quello di Cilens, nome di divinità etrusca che si ritrova sul fegato di bronzo di Piacenza e che designa, secondo Thulin, una dea del destino[14]. Le altre iscrizioni presentano i nomi di thuluther, vitaniceshusur, che sono evidentemente quelle delle divinità o degli eroi rappresentati, ma che non si sono potuti identificare.
Sebbene il museo archeologico di Firenze fosse ancora chiuso al pubblico, abbiamo potuto confrontare sul posto, grazie alla cortesia del direttore del museo, Sig. Minto, i frammenti trovati al tempio di Poggio Casetta con questa serie di antefisse. Il materiale degli uni e delle altre è esattamente simile, lo stile è identico. Qui è là, stessa maniera di trattare le pieghe dei drappeggi che evoca un po’ l’arte delle scuole ellenistiche dell’Asia Minore e che non si ritrova affatto nelle altre terrecotte già conosciute[15]. Si può dunque concludere che le terrecotte del museo di Firenze provengono dal santuario scoperto nel 1948. Il tempio volsiniese sarebbe stato così decorato da una bella serie di antefisse raffiguranti una versione del mito della Gorgone.
Alcuni pezzi di un fregio originario di Bolsena e che presenta l’immagine di mostricavalcati da amorini alati sono di uno stile paragonabile e potrebbero provenire dallo stesso edificio[16].Un’altra serie di terrecotte architettoniche, provenienti ugualmente da Bolsena, è di estremo interesse. Si tratta di frammenti di fregi decorati di palmette e ornati di figure impressionanti di Lase e di Caronte. Queste piastre di rivestimento sono state ripartite tra diversi musei di Roma. Esse risalgono al IV secolo a.C. e hanno stimolato numerosi e approfonditi studi[17]. La loro provenienza è necessariamente diversa da quella delle antefisse sopra descritte e conservate al museo di Firenze.






[1]Cf. Raymond Bloch, Volsinies étrusque. Essai historique et topographique, dans Mélanges d'archéologie et d'histoire, 1947, p. 9 a 39. 
[2] Cf. Comptes-rendus de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, 1947, p. 577-582, e 1948, p. 433-438.
[3] La carta archeologica qui riprodotta (fig.1) aiuterà a situare tutti i luoghi di lavoro o di scoperta che saranno segnalati. Le lettere maiuscole indicano su questa carta le rovine etrusche, i numeri romani le strade romane e i numeri arabi le rovine romane. Le strade romane sono disegnate con tratto continuo laddove sono ancora oggi visibili, altrove in puntinato. La carta e i disegni sono dovuti alla mano dell’ingegner Antonioni, che tengo a ringraziare per la sua preziosa collaborazione.
[4]Cf. E. Gabrici, Scavi nel sacellum della Dea Nortia sul Pozzarello, inMon. Ant. della R. Accad. Naz. dei Lincei, 1906, p. 170 sq. a
[5]L. R. Taylor si pronuncia tuttavia in senso opposto inLocal cults in Etruria, Papers and Mon. of the Amer. Acad. in Rome, 1923, p. 147 sq.
[6]Liv., VII, 3.
[7] Vitruvio, De Arch., IV, 7.
[8]Devo ringraziare qui la Sig.a Cesano, numismatica addetta al Museo delle Terme, che, su mia richiesta, ha accettato di buon grado di pesare queste monete con precisione.
[9]Agnès Kirsopp Lake, The archaeological evidence for the tuscan temple, inMem. of the am. Acad. in Rome, XII, 1935, p. 89 sq., e Arvid Andren, Architectural terracottas from etrusco-italic temples, vol. VI degli Acta Inst. Rom. Regni Sueciae, Lund-Leipzig, 1940, 1 vol. di testo et 1 di tavole.
[10]Q, Q. Giglioli, ouvr. cité, tavola CLXI.
[11]Vitr., De Arch., IV, 7, 1.
[12] A. Andren, ouvr. cité, p. 391, fig. 36.
[13]C. I. E., 5179, 5180, 5181.
[14] Cf. C. O. Thulin, Die Götter des Martianus Capella und der Bronzeleber von Piacenza, Religionsgesch. Vers. u. Vorarb., Ill, ι, 1906, p. 60 sq., e A. Grenier, Les religions étrusque et romaine, coll. Mana, Paris, P. U. F., 1948, p. 36.
[15]Il gruppo Minerva-Cilens è spesso riprodotto. Cf. A. Milani, Il R. Museo arch, di Firenze, Firenze, 1912, pi. 94; P. Ducati, Storia dell’arte etrusca, Firenze, 1927, p. 538 ; G. Q. Giglioli, ouvr. cité, pi. 379, e soprattutto A. Andren, pi. 178, n. 266, 267 e 268.
[16] A, Andren, ouvr, cité, pi. 178, n. 269 et 270.
[17]Cf. F. de Ruyt, Charun démon étrusque de la mort, Bruxelles, 1934, p. 113, n° 130, fig. 53 ; A. M. Colini, Notizia di un poco noto gruppo di terrecotte architettoniche etrusche della III fase, S. E., IX, 1935, p. 95 a 106, pi. 25 et 26 ; A. Andren, ouvr. cité, vol. di testo, p. 204, pi. 177, n. 260 et 261


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giovedì 26 gennaio 2017

Bolsena e la Val di Lago tra IV e III secolo a.C.

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L'ultimo intervento pubblico dell'archeologo Dott. Enrico Pellegrini. 


































































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